Sono le 08,00, finalmente è sera e siamo tutti riuniti attorno al tavolo per la cena. Mio marito Hassan è stanco, ha lavorato tutto il giorno nel campo; ma è soddisfatto...i mandorli ci stanno dando tante mandorle. Ne ha regalate un po' al nostro vicino di casa, Yosha l'ebreo. Lui ci ha ricambiati con il suo prezzemolo. I miei figli Amina e Mahmuod un po' mangiano e un po' giocano.
E' il momento migliore della giornata, quando cucino l'ahuia con l'erba che ho raccolto. Giovanni, il nostro vicino cristiano, mi ha dato i pomodori e ne ho fatto una bella insalata. Era il suo modo per ringraziarci delle olive che gli diamo per fare l'olio.
Passiamo così tutte le sere e le giornate.
Sono le 08,30 di sera. Ci bussano alla porta.... ma chi è a quest'ora?
E' Yosha, sembra impazzito, fatichiamo a calmarlo e ci dice “scappate, io sto scappando, qui sta arrivando il Diavolo”. Nel frattempo vediamo Giovanni che sta andando via da casa sua, porta via anche la famiglia.
“Giovanni, dove andate? Che succede”. Ma anche Giovanni ci dice “scappate”.
Non sappiamo cosa stia per accadere, ma Hassan ed io decidiamo di rimanere. Non vogliamo lasciare i nostri frutteti, la nostra casa; vogliamo che i nostri figli vivano come noi, con la stessa armonia con questa terra e con le persone che la abitano.
Passano le ore e anche se con poca serenità, andiamo a dormire.
Sono le 11,00 di notte. Un boato ci scuote e con un balzo siamo tutti giù dai letti.
La porta di casa nostra è stata buttata giù. Fumo che offusca la vista e un odore nauseabondo ci invade le narici.
Dal fumo si intravedono delle sagome...che si fanno largo nella nostra cucina.
Sono soldati!
Mio figlio piccolo, Mahmuod, urla! E in un solo istante, in un sol suono netto, che rompe i miei timpani.....un solo sparo che arriva dritto al cuore di mio figlio Mahmuod. Lo hanno ucciso. Hanno sparato al cuore di Mahmuod!
Lo shock, il dolore al mio petto. Mi pietrifico.
Mio marito Hassan si scaglia contro di loro, ma è una lotta impari. Lo picchiano, lo insultano, gli sputano in faccia e ci spingono fuori dalla nostra casa.
Hassan urla “questa è casa nostra, la nostra terra, non ce ne andiamo! Mostri avete ucciso mio figlio!”
I soldati allora si avvicinano a mia figlia Amina, la prendono mentre lei urla, io urlo.... La mettono su una loro jeep e la portano via.
In quel momento non lo sapevo, ma è stata l'ultima volta che ho visto mia figlia Amina.
Il corpo di mio figlio Mahmuod è lì per terra, in cucina, nel sangue. E non possiamo nemmeno prenderlo.
Hassan decide di legarsi ad un albero di mandorle, mentre i soldati stanno dando fuoco a tutti i nostri alberi. Non si fermano, non si fermano.... danno fuoco anche al mandorlo dove c'è legato Hassan. Vedo mio marito bruciare assieme ai mandorli. Non riesco nemmeno più a gridare. Non ho più voce, non ho più respiro.
Svengo davanti a quella che era casa mia, dove sono morti Mahmuod ed Hassan, dove giacciono i loro corpi senza nemmeno una sepoltura, dove vivevamo...
Sorge il sole e con la luce arrivano delle ruspe ed altre macchine. Iniziano a costruire un muro, molto alto e lunghissimo. Il muro è tutto attorno al mio frutteto e alla mia casa. Dentro e fuori ci sono i soldati. Si avvicina a me una donna soldato.
Penso, forse perchè è donna come me e magari mamma come me, si è pentita e vuole aiutarmi. Ma quando mi è vicina mi dice “Te ne devi andare. Questa terra ora è nostra perchè anche noi abbiamo il diritto di avere una terra”. Sono sgomenta e non capisco, quindi chiedo “ma chi siete?”. La sua risposta è del tutto inaspettata: “siamo italiani, spagnoli, polacchi, inglesi e ci riconosciamo tutti sotto ad un unica bandiera che chiameremo Stato di israele”.
Non capisco nemmeno di cosa stia parlando, solo mi esce un ...”Mio Dio!”.
Ma lei, con occhi di giaccio e con voce metallica, mi risponde “no, Dio non c'entra, non esiste”.
Continuo a stare lì davanti. Vedo tutta la costruzione del muro. La mia casa, i miei frutteti, i miei vicini di casa, la mia famiglia... non si vedono più.
Passano i giorni, i mesi, gli anni. Sono sempre qui davanti e loro sono lì. Oggi stanno facendo una festa lì sull'erba, con tanta musica. Da lontano e aldilà del muro mi insultano e ogni tanto mi tirano delle bombe per mandarmi via.
La rabbia ha sostituito il dolore. Da pietrificata sono diventata pietra. Sono sola.
Mi alzo in piedi e gli urlo “Quanto tempo starò senza reagire secondo voi?”
Dall'altra parte del muro qualcuno spara senza colpirmi mortalmente e mi chiede “hai ancora voce? Ah sì? Dicci come ti chiami?”
Mi è rimasto un filo di voce e ho con me il proiettile che mi hanno sparato.
Mi rialzo e mentre gli tiro il proiettile gli urlo “Mi chiamo Palestina!”.
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