Ve la racconto oggi, due
anni dopo, con tutto quello che non ho detto perchè al momento il
mio cervello si rifiutava di elaborare e con ciò che ne consegue
oggi.
Giugno 2015, Nablus, il
cerchio attorno a me si è ristretto di parecchio e lo sento. Quelli
dell'Autorità Nazionale Palestinese ce li ho addosso e non riesco
più a scrollarmeli, nonostante gli interventi dei palestinesi con i
quali lotto. Ho capito che non potevano fare più nulla e che sarei
stata “data” in qualche modo agli israeliani. Pensavo venissero a
prendermi a casa, ma credo che semplicemente una delle “famiglie”
di Nablus (o forse più d'una) non gliel'abbia permesso. Avevo già
fatto pulizia nell'armadio, donando i vestiti e le cose che non usavo
più. Dormivo vestita e con lo spay al peperoncino sul comodino,
pensando “vaffanculo, quando arrivo, io ci provo a difendermi”.
Il 10 giugno viene chiuso
per la prima volta il mio profilo facebook per la foto del viso di un
martire palestinese. Strano, avevo pubblicato di tutto per due
anni...per la foto di un viso, mi chiudono l'account per 3 giorni.
E' l'11 giugno, venerdì.
Da tempo non partecipavo alle “manifestazioni organizzate del
venerdì”; ma quel giorno...avevo organizzato di andarci per
accompagnare un attivista italiano (stile pacifinto) che un'ora prima
dall'appuntamento, decide di partire e lasciare Nablus. Avevo
organizzato l'appuntamento nella piazza di Nablus e non mi andava di
mandare all'aria con i palestinesi; non era carino.
Così vado io
all'appuntamento con quel palestinese e prendiamo il taxi che ci deve
portare a Kuffr Qaddum. Faccio richiesta se sulla strada che stava
prendendo c'erano i soldati, ma il palestinese mi dice che non ci
sono. Strano (n.2) su quella strada c'erano sempre...
E infatti c'erano....
Faccio fermare il taxi al
distributore di benzina e gli dico di tornare indietro a Nablus. Nel
frattempo il palestinese chiama il contatto al villaggio di
destinazione, parlano in arabo ovviamente e non so cosa esattamente
abbia risposto il contatto, so solo che il taxi non si muove da lì.
Alcuni minuti dopo
vediamo la jeep dei soldati israeliani andarsene e il nostro taxi
decide di riprendere la strada....a tutta birra... Non ho fatto in
tempo a parlare... avevamo già la jeep dei soldati che correva al
nostro fianco. La jeep si posiziona davanti al taxi, sempre in corsa,
ed inizia a rallentare. Prima di fermarsi, si sono aperte le porte
del retro e sono scesi i soldati con i loro M16 in mano. Hanno
circondato il taxi. Due di loro aprono le porte del retro, dove sono
seduta io, e mi puntano i fucili.
Era andata. Era la Fine.
Chiedono a tutti e tre i
documenti, io mi rifiuto di darglieli. Passano i minuti...riesco a
mandare quel tweet “mi hanno presa” e poi nascondo la simcard
nell'auto (avevo ancora la speranza di poter non essere presa).
Mi chiedono la borsa, la
prendono e dentro trovano il passaporto. Chiedo di chiamare il
Consolato italiano, ma mi rispondono “tu, non chiami nessuno” e
la frase che mi ripeteranno fino al mio arrivo in Italia: “non sei
in arresto, ma devi venire con noi”. Arriva la border police,
arrivano gli shabak che mi fotografano con l'I-phone. Trovano una
maschera antigas nel portabagli e il palestinese dice che è la sua,
ma loro la infilano dentro la mia borsa.
Nel frattempo, la mia
testa è un vespaio..: pensavo alla mia casa, ai miei cazzo di
mobili, ai miei amici, al suono della moschea che non avrei più
sentito dal mio balcone, a tutto che finiva.
Sono passate ore, al
caldo, senz'acqua.... Alzo lo sguardo oltre ai mostri che mi
puntavano i fucili e vedo gli ulivi.. ho pensato che non avrei fatto
la raccolta delle olive, ad ottobre. Esco dl taxi e vado vicino ad un
ulivo, prendo due olive, le stringo in mano, le annuso, sorrido e mi
scende una lacrima.
Uno dei soldati mi
guarda...allora si avvicina all'ulivo e strappa un ramo, lo guarda e
lo lancia in mezzo alla strada dove passano le auto. Lui, quel gesto,
il potere..
Il tassista inizia a
lamentarsi che non ce la fa più, erano passate 5 ore da quando ci
avevano fermati.
Ci fanno scendere dal
taxi ed iniziano a perquisire l'auto. Trovano una bandiera di Fatah
sotto al sedile anteriore e il palestinese mi dice “Samantha, digli
che è la tua”. No, cazzo, essere presa con una bandiera di Fatah
proprio no. E sembra che lo sappiano che non è la mia, perchè
sparisce subito nella tasca dei pantaloni di un soldato. Poi, passano
al sedile del retro e trovano la simcard.... A trovare la simcard,
sono stati gli shabak che hanno fischiato dalla gioia.
Arriva l'ordine, mandano
via il taxi con il tassista ed il palestinese.. e lì ho l'impeto:
stringo la mano al palestinese e gli dico “congratulazioni,
salutami tutti”.
I soldati rimangono in
due con la border police. Mi fanno sedere al ciglio della strada, uno
di loro è in piedi a fianco a me e mi punta il fucile. L'altro
soldato sale nella jeep della border police e parlano.
In quel momento mi sono
resa conto che non c'era nessuno che mi vedeva. Mi sono alzata in
piedi e ho detto al soldato “smettila di puntarmi sto cazzo di
fucile”. Lui, ridendo mi risponde “ah, ti da fastidio? Ma è a
salve...”. Ho atteso in piedi fino a quando mi hanno fatto salire
sul retro della jeep. Hanno fatto ripetere al soldato l'ennesima
volta, in inglese “ti ricordiamo che non sei in arresto, ma devo
venire con noi”.
Mi hanno portato
all'insediamento illegale israeliano di Ariel. Nella centrale della
polizia c'erano 3 ragazzi palestinesi con le catene ai piedi.
Aspettavano...
Avevano cercato di
entrare nei territori del '48 per lavorare, li avevano beccati.
Portano dei sandwich confezionati (israeliani ovviamente). Lo rifiuto
dicendogli che non voglio nulla di israeliano.
Poi arriva il mio
turno.... Mi portano in una stanza e ci sono due uomini (nessuna
divisa o tesserino), presumo che siano shabak. Mi chiedono: “A noi
risulta che è da un anno e 4 mesi che non esci da israele
(PALESTINA), lo confermi?”. Gli rispondo che non confermo nulla,
che non rispondo ad alcuna domanda, che devo chiamare il Consolato ed
il mio avvocato e che entro in sciopero della fame non per me, ma per
chiedere la liberazione dei 350 bambini palestinesi che erano nelle
loro prigioni”.
Mi propongono di firmare
un foglio dove c'era dichiarato “io dichiaro di essere in
territorio israeliano in modo illegale, accetto di rientrare in
Italia entro 72 ore e di non tornare mai più in israele”. Mi
rifiuto di firmare e loro mi rispondono “ok, allora vai in
prigione”.
Mi fanno le foto
segnaletiche, poi mi dicono che devono prendermi le impronte..mi
rifiuto di dargli la mano che loro si prendono con la forza. Poi uno
di loro mi prende con una mano al collo e l'altra per i capelli
tirandomi la testa un po' indietro (non avevo capito che cosa
volessero fare).. l'altro mi infila un bastoncino in bocca (che nel
frattempo avevo spalancato per lo spavento) e mi dice “ti prendiamo
il dna”.
Sapevano che non potevano
contestarmi nemmeno il mancato rinnovo del visto, perchè avevano
attaccato il taxi vicino a Nablus.... io non sono mai uscita da lì.
Per un anno e 4 mesi, non sono mai passata oltre il muro.
Mi portarono quando
oramai era notte, in prigione, dicendomi che eravamo nel deserto del
Nakab. il tragitto, uno dei soldati ricevette una telefonata dove
parlò in inglese di me... Quando chiuse la comunicazione mi disse
“era il tuo Consolato, di Gerusalemme”. Erano le 11,00 del
mattino quando avevano fermato il taxi. Sono arrivata alla prigione
di Ben Gurion alle 23,30 (che non è nel deserto del Nakab).
Ad “attendermi”
c'erano 3 soldatesse e due soldati della border police. Iniziarono di
nuovo l'interrogatorio. Oramai non c'erano più speranze e così gli
cagai la rabbia a parole “questo è un rapimento, questa è la
Palestina, voi siete dei nazisti di merda che state compiendo un
genocidio. Mi ritengo un prigioniero politico, entro in sciopero
della fame per chiedere la liberazione dei 350 bambini palestinesi
che avete rapito”. Si incazzarono ovviamente. Mi fecero chiamare il
Consolato e poi mi buttarono in cella d'isolamento.
Le celle sono tutte
bianche, con le porte azzurre. Tutto, nelle prigioni israeliane, è
dei colori d'israele. Hai le bandiere basse, che quando cammini per i
corridoi ci sbatti la faccia sopra. Io gli sputavo, sempre.
La cella era grande, con
letti a castello. I letti sono in ferro, ti spacchi tutta a dormire
lì sopra. Però, quella notte, dopo un po' mi sono addormentata....
Mentre dormivo sono venuti a svegliarmi e mi hanno detto “ti sei
dimenticata di firmare questo foglio..”. Era di nuovo il foglio che
mi avevano proposto prima. Mezza addormentata, gli ho ripetuto che
non mi ero dimenticata, ma che non lo volevo firmare.
Allora hanno lasciato la
luce accesa (ci resterà per 4 giorni) ed acceso l'aria condizionata
a palla. (anche quella resterà così per 4 giorni). Gelavo, giugno,
a Tel Aviv.
Dalla mattina successiva
iniziarono a venirmi a prendere per il mio momento d'aria. Che non
posso chiamare “ora d'aria”, perchè si trattava di soli 10
minuti al mattino e 10 minuti al pomeriggio. Giusto il tempo di due
sigarette. Non potevo parlare con gli altri che si trovavano in
prigionia lì e che vedevo in quei 10 minuti. E poi c'erano le
porte..le porte delle celle. Le usano come tortura psicologica (così
come la luce sempre accesa e l'aria condizionata). Le porte azzurre
di ferro, le sbattono fortissimo. E' un tuono che ti entra nel
cervello e non esce più.
Su quelle porte i
prigionieri picchiavano i pugni “voglio far valere i miei
diritti....voglio uscire...voglio parlare..”.
Mi ero messa in testa ciò
che gli avevo dichiarato, non volevo uscirne come una scema, ma a
testa alta, lottando. Non ho mai bussato, mai chiesto nulla. Star lì
dentro era da impazzire, in isolamento, senza nemmeno il tempo
scandito dai pasti perchè ero in sciopero della fame.
Ho pensato.... “non
devo pensare a cosa mi manca, ma a quello che ho per sopravvivere.
Che cos'ho? Ho la mia testa, il mio corpo, questo spazio. Cosa posso
fare?”. Facevo flessioni, addominali, cantavo, camminavo avanti e
indietro nella cella. Tutto il giorno.
A quarto giorno mi hanno
comunicato che qualcuno sarebbe venuto a portare la mia valigia e a
quel punto me ne sarei andata... Boh! Dapprima mi sono chiesta chi
cazzo sarebbe entrato lì dentro a portarmi una valigia e poi...per
andare dove?
Quel giorno, verso le 2
del pomeriggio sono venuti a prendermi...e mi hanno portato nel
cortile (quello dei 10 minuti d'aria). Mi hanno detto “aspetta
qui”. E sono andati ad aprire la porta della prigione..io, che
tremavo perchè congelata, con gli occhi sbarrati..mi aspettavo
qualcuno del Consolato o uno sbirro.... E invece, quando l'ho vista
entrare....Era G....aveva avuto il coraggio di venire da sola a Tel
Aviv, in prigione da me, a portarmi una cazzo di valigia con il
rischio di essere presa anche lei. Si è fermata a pochi centimetri
davanti a me..perchè non sapeva se poteva mostrare che mi conosceva
e non sapeva che storia avevo raccontato. E' stato qualche attimo,
dove le tremavano le palpebre degli occhi, con la pelle tirata di
quando trattieni tutto. E poi l'ho abbracciata. Non mi è scesa
nemmeno una lacrima perchè non potevo piangere davanti ai boia; ma
piango ancora adesso, ogni volta che penso a quel momento.
La prima domanda che le
feci era per sincerarmi che il palestinese avesse avvisato che gli
shabak avevano la mia simcard...ma lei mi rispose che il tizio non
aveva detto nulla. Merda.
I soldati ci stavano
addosso, non potevamo nemmeno sentire i nostri respiri in
tranquillità e la visita durò pochi minuti.
Mi riportarono in cella,
per venirmi a prendere la mattina dopo. Mi trasferivano nella
prigione di Givon.
Arrivai a Givon con la
mia cazzo di magliettina con la Palestin disegnata sopra...ero
convinta di andare in mezzo ai palestinesi. Appena entrata capii
dov'ero...
C'erano dei prigionieri
con le tute arancioni, legati con catene alle caviglie, l'uno
all'altro. Stavano lavorando delle aiuole. Ma non erano palestinesi,
anzi, quando videro la maglietta avevano desiderio di farmi fuori
(dai loro occhi).
E lì, alzarono il tiro
con la tortura psicologica... mi misero in una specie di gabbia, un
container. Tutto chiuso, tranne un buco di 10 cm per 10 cm sulla
porta che però dava al loro corridoio.
La gabbia era di 2 mt per
uno ed il soffitto potevo toccarlo con le mani. Era, ovviamente, una
situazione claustrofobica. Mi lasciarono lì per ore... Mentre ero lì
dentro, dall'altra parte di una delle parete della gabbia, sembrava
stessero torturando qualcuno su una sedia con le rotelle (tipo quelle
da ufficio) con un getto d'acqua.. La persona rantolava e chiedeva
aiuto come se stesse affogando. Poi, l'acqua iniziò ad entrare anche
nel mio container. Non so se fu una messa in scena per spaventarmi,
ma quello che ho percepito è ciò che ho scritto.
Vennero a prendermi e mi
portarono all'ennesimo interrogatorio dove mi comportai come nei
precedenti. Mi dissero “tu vuoi continuare con lo sciopero della
fame? Sei un problema di sicurezza. Quindi, se vuoi continuare,
quella gabbia sarà la tua cella per il resto dei tuoi giorni. Scegli
tu”.
Sapevo che quella gabbia
era un metodo di tortura che ti fa perdere la lucidità dopo circa
due giorni. Non potevo permettermelo, volevo durare il più possibile
per permettere alla Farnesina di usarmi come ago della bilancia per
la liberazione dei bambini palestinesi. Così interruppi lo sciopero
della fame e uscìì al tempo stesso dall'isolamento.
Mi misero nel braccio
femminile dei prigionieri con problemi di presenza illegale (o fatti
simili). Ero in cella con due donne africane, una delle due era
cattivissima. Iniziò da subito a rompermi i coglioni, ma avevo
voglia zero di problemi con i prigionieri (come me).
Il giorno successivo
andava già meglio con loro due. La “cattivissima” si chiamava
Acuba Filastin. Tutte e due avevano fatto richiesta di asilo politico
in israele e dovevano “attendere” in prigione per 5 anni. Erano
lì da due anni e 6 mesi in quel momento; con i figli fuori che le
aspettavano. Vivevano quella cella come “tutto il loro mondo” e
la difendevano da qualsiasi intruso (come me). Non uscivano dalla
cella nemmeno quando c'era la porta aperta e non parlavano con le
altre prigioniere (e facevano bene, dopo capìì il perchè).
C'era una cinese, che
aveva lavorato per gli israeliani per 8 anni, ma non l'avevano pagata
solo per un 10% del suo lavoro..quando era arrivato il momento di
avere tutti i soldi e tornare in Cina, cos'hanno fatto? Hanno
chiamato la polizia ed hanno detto che lei era lì senza visto. Così
dopo 8 anni di lavoro fu deportata, senza soldi e con quei pochi
soldi che aveva preso ci dovette pagare l'avvocato.
C'erano un gruppo di
filippine, sempre attaccate ai telefoni... Una di loro mi chiese se
volevo parlare con il Consolato di Gerusalemme...mi disse “sai, ho
un amico che lavora lì”... Eh, posso immaginare....
Mi offrì anche il caffè,
mentre mi faceva le domande su chi ero e cosa facevo in Palestina...
Era la “manager” del
gruppo delle Filippine. In prigione ci sono le “manager” che sono
quelle che “trattano” con i carcerieri. La mia manager era Acuba
Filastin, ma non me l'ha mai detto. La porto nel cuore quella Donna.
Ci svegliavano con le
botte sulle porte alle 7,30. Alle 8,00 dovevamo essere tutte in piedi
a lavare la cella con l'ammoniaca.... e tirare secchiellate d'acqua.
Immaginate, appena sveglie, senza colazione, a tirare acqua ed
ammoniaca....
Avevamo due lavandini
nella cella: uno per lavare la frutta e il piatto dove si mangiava, e
l'altro era un secchio in bagno per lavarti le mani ogni volta che
andavi in bagno. Dovevamo star molto accorte su queste robe qui,
perchè gira di tutto ed il contagio è facile.
Nel cortile chiuso anche
nel soffitto da reti, c'era una casetta di plastica per far giocare i
bambini. Ogni tanto ne entravano...in prigionia.... Poi, c'era il
negozietto israeliano dove qualsiasi cosa costava come un rene
(sigarette comprese) e puoi avere in cella SOLO le cose che vengono
da quel negozietto.
Quando mi misero in cella
con le donne, mi ridiedero anche il mio telefono... con la simcard...
Lo facevano funzionare loro, gli shabak. Nonostante fosse ovvio, i
palestinesi vollero chiamarmi ugualmente per dirmi “ciao” almeno
al telefono. Sapevo che fuori erano impazziti tutti, che era partita
la caccia alle streghe.
Il giorno successivo mi
portarono in una stanza c'erano due soldatesse e due uomini con la
kippa. Uno era un traduttore dall'italiano all'ebraico. Mi chiesero
“sai dove ti trovi?” e io... “si, in Palestina”. E poi.. “sei
pronta a rientrare in Italia?”, risposi “no, io voglio tornare in
Palestina e voglio la liberazione dei 350 bambini palestinesi dalle
vostre prigioni”. Poi chiesi cosa cazzo era questo dialogo.. Mi
risposero che l'uomo era un Giudice militare e che siccome rifiutavo
di rientrare in Italia volontariamente dovevo trovarmi un avvocato,
perchè io con loro non potevo parlare.
Il giorno successivo
arrivò a farmi visita il Console italiano a Tel Aviv che si scusò
di non essere venuto prima, ma era all'estero. Li interrogò davanti
a me per capire di cosa era accusata. Gli risposero “no, nessun,
reato”. Il Console, allora seguì “ok, allora perchè la state
tenendo in prigione?”. Gli risposero che era perchè mi rifiutavo
di firmare il loro foglio. Il Console gli fece presente che non
potevano farlo perchè io ero cittadina italiana e che dovevano
parlarne. Il soldati gli risposero “è in detenzione amministrativa
e parla con lei, Nicolas, non con noi, ti salutiamo.”.
Passarono altri due
giorni. La Farnesina puntava a farmi rientrare in Italia e non c'era
in corso nessuna trattativa per la liberazione dei bambini
palestinesi. Al telefono dalla cella continuavo a ripetere alle
persone in Italia di non chiedere la mia liberazione. (poi arrivo in
Italia e trovo i manifesti “free Sam”..Vabbè).
L'ultimo giorno era già
iniziato male: avevano portato dentro una donna dell'Est che si
svenne per terra. Erano anni che era lì a Tel Aviv. Gli sono entrati
in casa e dicevano che non era in regola con il visto. Il figlio, per
scappare, era saltato giù dal terzo piano e lei non sapeva se era
vivo o no. Contemporaneamente avevano portato dentro un'altra
filippina che però diceva di essere una colona israeliana e imbastì
il discorso con “questa terra è nostra, è scritto nella
Bibbia”.... Mi sa che il mio sguardo non passò inosservato alla
manager filippina, né alle guardie.
Dopo pranzo arrivò l'sms
del Console: “stanno organizzando il tuo rientro su Fiumicino per
domani mattina”. Nello stesso momento, le guardie, me lo dicevano a
voce. Gli dissi da subito che avrei fatto resistenza.
Pochi minuti dopo il mio
telefono smise di funzionare. Quella sera le mie compagne di cella
cantarono e ballarono per me; una roba inventata al momento che
diceva “tu, domani volerai..”. Regalai ad Acuba due spazzolini
per i denti (oro in prigione). Lei mi rispose “ti porterò nel mio
cuore, Dio ti benedica” e.. “cerca di non farti male quando
vengono a prenderti”.
Il mattino successivo
vennero all'alba, quando si inizia a lavare la cella. Erano tutte
soldatesse. Non potevo nemmeno puntare i piedi per terra perchè si
scivolava, era già pieno di acqua ed ammoniaca.
Mi limitai ad urlare
frasi per le prigioniere e a sputare a random.
Quando mi portarono nella
parte d'ingresso, mi rimisero nella gabbia, assieme ad altre due
donne. Ma le due donne, soprattutto una, non riuscivano a star lì
dentro. Lasciarono la porta aperta di pochi cm.
Ad una ad una ci fecero
andare a ritirare i nostri “effetti” lasciati quando eravamo
entrate. Nelle buste sigillate c'era tutto, tranne una cosa: era
sparito il porta-accendino che mi aveva regalato Jihad, fatto a mano
da lui quand'era in prigione. L'ennesima tortura mentale.
Fecero salire tutti/e sul
bus, ma io mi sedetti per terra e dissi “non posso, non posso
accettare, non posso smettere di lottare”.
Con molta tranquillità
mi dissero “ok, ci pensiamo noi”. Arrivarono in 15 con le pistole
elettriche, io ero seduta per terra, loro tutti attorno in piedi.
Non aveva più senso, mi
avrebbero caricata comunque sul bus per l'aeroporto. Salii sul bus,
ma già da lì ripartì lo stesso trattamento iniziale: non potevo
parlare con gli altri, né sedermi vicino agli altri, né usare il
telefono.
Ci riportarono di nuovo
alla prigione di Ben Gurion, ma un soldato mi trattenne con la scusa
di poter fumare. Faceva “il buono” per farmi parlare “cos'hai
visto? Dove hai vissuto?”. Gli chiesi come mai non c'era né una
sinagoga, né una moschea, né una chiesa.. Mi rispose “non siamo
religiosi”. A posto, alla faccia della “terra data da Dio”.Mi
riportarono da quelli dell'interrogatorio dove mi comunicarono che
venivo deportata e che pertanto per 10 anni non potevo rientrare in
israele (PALESTINA).
Restai altre ore in
cella, poi mi dissero che era il momento. Mi chiusero nel retro di
una jeep completamente chiusa e NON aprirono l'aria per respirare.
C'erano 40 gradi. Non volevo bussargli per chiedergli l'aria, non
avevo mai bussato in tutti questi giorni, non gli avevo mai chiesto
nulla.
Quando arrivammo davanti
all'aereo (non sono passata dall'aeroporto), pensai “ce l'ho fatta,
non gli ho chiesto nulla nemmeno questa volta”. Ma, stazionarono
con la jeep...non mi facevano scendere e stavo per collassare... Così
ho dovuto bussargli e chiedergli l'aria. Mi risposero “ah, scusa,
c'eravamo dimenticati”.
Mi portarono sull'aereo
della El Al, tutti israeliani. Alcuni passeggeri protestarono per la
mia presenza e perchè avevano fatto spostare 3 persone dai loro
posti.... 3? Ok, non sono sola...
Vedevo la Palestina
dall'aereo, per l'ultima volta e non potevo nemmeno piangere.
Sono stata deportata il
18 giugno 2015.
Arrivata a Fiumicino mi
trattennero sull'aereo fino a quando non si svuotò di tutti i
passeggeri. Sull'aereo salì la polizia italiana che prese il mio
passaporto e mi disse “bentornata”. Bentornata un cazzo.
Dovevano chiudere il
rapporto della Farnesina, quindi mi chiesero cos'era accaduto. Poi
passarono altre ore perchè la mia valigia era casualmente sparita.
La riportò un poliziotto.
Fuori c'erano i miei
amici ad aspettarmi e ad abbracciarmi. Non c'era alcuna
rappresentanza dallo Stato italiano e nessun giornalista. Anzi no, lo
“Stato” c'era....era pieno di agenti della Digos.
Restammo a Roma quella
notte a dormire. La polizia fece vedetta tutta la notte girando
attorno all'hotel. Dissero che temevano attentati degli “estremisti”.
Vabbè....
Due giorni dopo, mi
ricollegai a facebook e scoprii che quella foto che era stata la
motivazione della chiusura del mio account, era ancora lì.. e il mio
account era tornato a funzionare. Ho semplicemente capito che i
servizi avevano detto “basta” alla mia presenza in Palestina.
Questo, almeno, era
quello che avevo capito allora.
Ora, trovo significante
che a sapere che quel giorno andavo a Kuffr Qaddum c'erano le tre
entità che ho citato prima: l'attivista italiano che si è defilato
poco prima, l'autorità palestinese grazie al palestinese che c'era
sul taxi con me, e israele tramite il mio telefono sotto controllo.
Cerchio chiuso.
Israele se ne può
permettere centinaia come me, là. Chi non poteva più sostenere la
mia presenza là erano gli altri due mostri.
Mi rimangono le fobie
delle porte, della gente che se mi tocca o mi sfiora do i numeri, la
claustrofobia, e altro ancora. Mi rimane la capacità di vedere
l'orrore. Del tipo.. se ci sono 100 pecore, tutte uguali e solo una
di loro soffre; io vedo quella che soffre e non vedo più le altre
99. Anzi, le vedo e mi incazzo. Ho reazioni orribili. Faccio sentire
gli altri delle nullità. Tendo a tagliare i rapporti con tutti
perchè ho solo merda da dargli. Ho completamente perso la voglia di
andare in luoghi dove “c'è gente”.
Quello che ho costruito,
lo vedo solo ora e mi sono resa conto che non è poco. E qui, ci
soffro ancora di più. Eh sì, perchè di fatto mi hanno martirizzato
in vita. Tutti i giorni vado a pulire i cessi per restare integra in
una società che rifiuto e per poter mantenere la mia etica intatta.
Tutti i giorni sono costretta a confrontarmi con le 99 pecore che
sono il NULLA.
Ho dipinto la mia stanza
di bianco ed azzurro, per onestà. Perchè dalla prigionia non ci
sono mai uscita e ne sono cosciente. Ero in prigione quand'ero in
Palestina così come quando lo ero a Givon, così come lo sono qui.
Echna cullna asra.....siamo
tutti prigionieri.
E
allora riparto da lì, come nella cella: “non devo pensare a ciò
che mi manca, ma a quello che ho. Ho il mio corpo, la mia mente,
questo spazio. Cosa posso fare...”. Continuare a studiarli
sicuramente, costruire una strategia e fare ciò che desidero. Ieri
sera ero al concerto di Ginevra de Marco, cantava “Todo
cambia”....bellissimo. Però avevo l'amaro in bocca....ne parlavo
con un amico algerino e gli dicevo “pensa se salissi sul palco,
dopo questa performance a dire a tutta questa gente che è
bellissima, ma peccato che Mercedes Sosa abbia vissuto in un kibbutz
occupando la Palestina...”. Lui mi ha risposto che non capirebbero
mai perchè non hanno vissuto là, non vengono da là, non sanno; non
capirebbero, mi griderebbero “antisemita, fascista, pazza”. Ecco,
appunto.
I
complici che hanno provocato il mio rapimento sono pronta a
perdonarli, perchè lotto per la Libertà di tutti, anche per la loro
che sono schiavi dei mostri.
Concludo
dicendovi che è solo il racconto del mio rapimento, non è nulla,
veramente nulla a confronto di ciò che fanno ai palestinesi.
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