Un riassunto della storia
per chi ancora non la conosce, per arrivare, poi, a dare la notizia
di oggi...
5 anni fa, sono a Nablus
e arriva la notizia che gli israeliani hanno ucciso un bambino di
Nablus. Stanno già portando il corpo all'ospedale di Rafhidia,
quindi mi dirigo direttamente lì. Fuori dal Rafhidia ci sono già
centinaia di persone e molti giornalisti. Attendo anch'io assieme ad
alcuni amici giornalisti palestinesi (Nidal e Abed). Poi, la polizia
palestinese apre le porte dell'obitorio per farci entrare. Fra quella
folla c'è il padre del bambino. Entro in quello stanzino piccolo ed
affollato, cerco di farmi un po' spazio fra le macchine fotografiche
e le telecamere.... e vedo il bambino. Vedo Imam, di 15 anni, di Beta
(Nablus). Lo vedo sulla lastra d'acciaio dell'obitorio, col corpicino
coperto da un lenzuolo bianco. E lì, mi paralizzo. L'unica cosa del
mio corpo che si muove sono le lacrime che scendono. Non so più
nemmeno che cosa sto registrando con la telecamera e quello che ne è
uscito l'avete visto in “israele, IL CANCRO”. Il padre, Jamil
Safer, si piega diverse volte sul corpo del figlio per baciarlo. Dopo
questo momento, sono uscita dall'ospedale. Ho incrociato per un
attimo il padre all'entrata, con altri parenti; ma non sono riuscita
a dirgli nulla. Non riuscivo a parlare.
Imam era uscito da scuola
con altri due amici. Stava tornando a casa e vicino al checkpoint di
Howwara, semplicemente....un soldato israeliano ha sparato ai
bambini. Hanno sparato ad Imam alle spalle, diversi proiettili. Il
proiettile che l'ha ucciso ha trapassato il cuore dal dietro a
davanti.
Qualche mese dopo,
assieme ad uno psicologo palestinese, sono andata a far visita alla
famiglia di Imam.
Mi sono ritrovata davanti
Jamil Safer e nuovamente non riuscivo a dirgli nulla, mi scendevano
solo le lacrime. Jamil mi ha fatto sentire la voce del figlio che
aveva in messaggio sul suo cellulare e mi diceva piangendo “questo
è tutto ciò che mi rimane di Imam”.
E ora, arriviamo alla
notizia orribile di oggi.
Jamil ha ricevuto una
telefonata dagli israeliani due giorni fa. Gli chiedevano di andare
al checkpoint di Howwara perchè avevano da consegnargli i vestiti
del figlio che si erano trattenuti per “indagare”. Sono passati 5
anni.... ok?
Jamil, ovviamente, non
crede agli israeliani e pensa ad una trappola; così gli risponde di
consegnarli alla DCO (per chi non lo sapesse è l'organo palestinese
che fa da tramite con gli israeliani). Ma loro rifiutano.
Quindi Jamil, oggi è
andato al checkpoint di Howwara (che oltretutto è il luogo dove è
stato ucciso il bambino). Si trova circondato dall'intelligence
israeliana e dai soldati. Lui è solo.
Gli aprono un borsone e
lì dentro ci sono i vestiti insanguinati e strappati di suo figlio.
Jamil sente l'odore del
sangue di suo figlio, li abbraccia e li indossa. Gli israeliani gli
dicono di rimettere i vestiti dentro al borsone e portarli via così;
ma lui si allontana con i vestiti di suo figlio addosso.
5 anni dopo, fa rivivere
questo ad un padre, è solo una tortura psicologica.
Jamil Safer ha tutta la
mia stima, solidarietà ed amicizia. Così come gli ho scritto tante
volte: “non posso dimenticare e non posso perdonare”.
Un abbraccio a tutta la
famiglia.