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sabato 27 luglio 2019

UN ALTRO METODO DI TORTURA




Un riassunto della storia per chi ancora non la conosce, per arrivare, poi, a dare la notizia di oggi...
5 anni fa, sono a Nablus e arriva la notizia che gli israeliani hanno ucciso un bambino di Nablus. Stanno già portando il corpo all'ospedale di Rafhidia, quindi mi dirigo direttamente lì. Fuori dal Rafhidia ci sono già centinaia di persone e molti giornalisti. Attendo anch'io assieme ad alcuni amici giornalisti palestinesi (Nidal e Abed). Poi, la polizia palestinese apre le porte dell'obitorio per farci entrare. Fra quella folla c'è il padre del bambino. Entro in quello stanzino piccolo ed affollato, cerco di farmi un po' spazio fra le macchine fotografiche e le telecamere.... e vedo il bambino. Vedo Imam, di 15 anni, di Beta (Nablus). Lo vedo sulla lastra d'acciaio dell'obitorio, col corpicino coperto da un lenzuolo bianco. E lì, mi paralizzo. L'unica cosa del mio corpo che si muove sono le lacrime che scendono. Non so più nemmeno che cosa sto registrando con la telecamera e quello che ne è uscito l'avete visto in “israele, IL CANCRO”. Il padre, Jamil Safer, si piega diverse volte sul corpo del figlio per baciarlo. Dopo questo momento, sono uscita dall'ospedale. Ho incrociato per un attimo il padre all'entrata, con altri parenti; ma non sono riuscita a dirgli nulla. Non riuscivo a parlare.
Imam era uscito da scuola con altri due amici. Stava tornando a casa e vicino al checkpoint di Howwara, semplicemente....un soldato israeliano ha sparato ai bambini. Hanno sparato ad Imam alle spalle, diversi proiettili. Il proiettile che l'ha ucciso ha trapassato il cuore dal dietro a davanti.
Qualche mese dopo, assieme ad uno psicologo palestinese, sono andata a far visita alla famiglia di Imam.
Mi sono ritrovata davanti Jamil Safer e nuovamente non riuscivo a dirgli nulla, mi scendevano solo le lacrime. Jamil mi ha fatto sentire la voce del figlio che aveva in messaggio sul suo cellulare e mi diceva piangendo “questo è tutto ciò che mi rimane di Imam”.
E ora, arriviamo alla notizia orribile di oggi.
Jamil ha ricevuto una telefonata dagli israeliani due giorni fa. Gli chiedevano di andare al checkpoint di Howwara perchè avevano da consegnargli i vestiti del figlio che si erano trattenuti per “indagare”. Sono passati 5 anni.... ok?
Jamil, ovviamente, non crede agli israeliani e pensa ad una trappola; così gli risponde di consegnarli alla DCO (per chi non lo sapesse è l'organo palestinese che fa da tramite con gli israeliani). Ma loro rifiutano.
Quindi Jamil, oggi è andato al checkpoint di Howwara (che oltretutto è il luogo dove è stato ucciso il bambino). Si trova circondato dall'intelligence israeliana e dai soldati. Lui è solo.
Gli aprono un borsone e lì dentro ci sono i vestiti insanguinati e strappati di suo figlio.
Jamil sente l'odore del sangue di suo figlio, li abbraccia e li indossa. Gli israeliani gli dicono di rimettere i vestiti dentro al borsone e portarli via così; ma lui si allontana con i vestiti di suo figlio addosso.
5 anni dopo, fa rivivere questo ad un padre, è solo una tortura psicologica.
Jamil Safer ha tutta la mia stima, solidarietà ed amicizia. Così come gli ho scritto tante volte: “non posso dimenticare e non posso perdonare”.
Un abbraccio a tutta la famiglia.

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