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domenica 18 giugno 2017

IL RAPIMENTO, LA PRIGIONIA E LA DEPORTAZIONE DUE ANNI DOPO



Ve la racconto oggi, due anni dopo, con tutto quello che non ho detto perchè al momento il mio cervello si rifiutava di elaborare e con ciò che ne consegue oggi.
Giugno 2015, Nablus, il cerchio attorno a me si è ristretto di parecchio e lo sento. Quelli dell'Autorità Nazionale Palestinese ce li ho addosso e non riesco più a scrollarmeli, nonostante gli interventi dei palestinesi con i quali lotto. Ho capito che non potevano fare più nulla e che sarei stata “data” in qualche modo agli israeliani. Pensavo venissero a prendermi a casa, ma credo che semplicemente una delle “famiglie” di Nablus (o forse più d'una) non gliel'abbia permesso. Avevo già fatto pulizia nell'armadio, donando i vestiti e le cose che non usavo più. Dormivo vestita e con lo spay al peperoncino sul comodino, pensando “vaffanculo, quando arrivo, io ci provo a difendermi”.
Il 10 giugno viene chiuso per la prima volta il mio profilo facebook per la foto del viso di un martire palestinese. Strano, avevo pubblicato di tutto per due anni...per la foto di un viso, mi chiudono l'account per 3 giorni.
E' l'11 giugno, venerdì. Da tempo non partecipavo alle “manifestazioni organizzate del venerdì”; ma quel giorno...avevo organizzato di andarci per accompagnare un attivista italiano (stile pacifinto) che un'ora prima dall'appuntamento, decide di partire e lasciare Nablus. Avevo organizzato l'appuntamento nella piazza di Nablus e non mi andava di mandare all'aria con i palestinesi; non era carino.
Così vado io all'appuntamento con quel palestinese e prendiamo il taxi che ci deve portare a Kuffr Qaddum. Faccio richiesta se sulla strada che stava prendendo c'erano i soldati, ma il palestinese mi dice che non ci sono. Strano (n.2) su quella strada c'erano sempre...
E infatti c'erano....
Faccio fermare il taxi al distributore di benzina e gli dico di tornare indietro a Nablus. Nel frattempo il palestinese chiama il contatto al villaggio di destinazione, parlano in arabo ovviamente e non so cosa esattamente abbia risposto il contatto, so solo che il taxi non si muove da lì.
Alcuni minuti dopo vediamo la jeep dei soldati israeliani andarsene e il nostro taxi decide di riprendere la strada....a tutta birra... Non ho fatto in tempo a parlare... avevamo già la jeep dei soldati che correva al nostro fianco. La jeep si posiziona davanti al taxi, sempre in corsa, ed inizia a rallentare. Prima di fermarsi, si sono aperte le porte del retro e sono scesi i soldati con i loro M16 in mano. Hanno circondato il taxi. Due di loro aprono le porte del retro, dove sono seduta io, e mi puntano i fucili.
Era andata. Era la Fine.
Chiedono a tutti e tre i documenti, io mi rifiuto di darglieli. Passano i minuti...riesco a mandare quel tweet “mi hanno presa” e poi nascondo la simcard nell'auto (avevo ancora la speranza di poter non essere presa).
Mi chiedono la borsa, la prendono e dentro trovano il passaporto. Chiedo di chiamare il Consolato italiano, ma mi rispondono “tu, non chiami nessuno” e la frase che mi ripeteranno fino al mio arrivo in Italia: “non sei in arresto, ma devi venire con noi”. Arriva la border police, arrivano gli shabak che mi fotografano con l'I-phone. Trovano una maschera antigas nel portabagli e il palestinese dice che è la sua, ma loro la infilano dentro la mia borsa.
Nel frattempo, la mia testa è un vespaio..: pensavo alla mia casa, ai miei cazzo di mobili, ai miei amici, al suono della moschea che non avrei più sentito dal mio balcone, a tutto che finiva.
Sono passate ore, al caldo, senz'acqua.... Alzo lo sguardo oltre ai mostri che mi puntavano i fucili e vedo gli ulivi.. ho pensato che non avrei fatto la raccolta delle olive, ad ottobre. Esco dl taxi e vado vicino ad un ulivo, prendo due olive, le stringo in mano, le annuso, sorrido e mi scende una lacrima.
Uno dei soldati mi guarda...allora si avvicina all'ulivo e strappa un ramo, lo guarda e lo lancia in mezzo alla strada dove passano le auto. Lui, quel gesto, il potere..
Il tassista inizia a lamentarsi che non ce la fa più, erano passate 5 ore da quando ci avevano fermati.
Ci fanno scendere dal taxi ed iniziano a perquisire l'auto. Trovano una bandiera di Fatah sotto al sedile anteriore e il palestinese mi dice “Samantha, digli che è la tua”. No, cazzo, essere presa con una bandiera di Fatah proprio no. E sembra che lo sappiano che non è la mia, perchè sparisce subito nella tasca dei pantaloni di un soldato. Poi, passano al sedile del retro e trovano la simcard.... A trovare la simcard, sono stati gli shabak che hanno fischiato dalla gioia.
Arriva l'ordine, mandano via il taxi con il tassista ed il palestinese.. e lì ho l'impeto: stringo la mano al palestinese e gli dico “congratulazioni, salutami tutti”.
I soldati rimangono in due con la border police. Mi fanno sedere al ciglio della strada, uno di loro è in piedi a fianco a me e mi punta il fucile. L'altro soldato sale nella jeep della border police e parlano.
In quel momento mi sono resa conto che non c'era nessuno che mi vedeva. Mi sono alzata in piedi e ho detto al soldato “smettila di puntarmi sto cazzo di fucile”. Lui, ridendo mi risponde “ah, ti da fastidio? Ma è a salve...”. Ho atteso in piedi fino a quando mi hanno fatto salire sul retro della jeep. Hanno fatto ripetere al soldato l'ennesima volta, in inglese “ti ricordiamo che non sei in arresto, ma devo venire con noi”.
Mi hanno portato all'insediamento illegale israeliano di Ariel. Nella centrale della polizia c'erano 3 ragazzi palestinesi con le catene ai piedi. Aspettavano...
Avevano cercato di entrare nei territori del '48 per lavorare, li avevano beccati. Portano dei sandwich confezionati (israeliani ovviamente). Lo rifiuto dicendogli che non voglio nulla di israeliano.
Poi arriva il mio turno.... Mi portano in una stanza e ci sono due uomini (nessuna divisa o tesserino), presumo che siano shabak. Mi chiedono: “A noi risulta che è da un anno e 4 mesi che non esci da israele (PALESTINA), lo confermi?”. Gli rispondo che non confermo nulla, che non rispondo ad alcuna domanda, che devo chiamare il Consolato ed il mio avvocato e che entro in sciopero della fame non per me, ma per chiedere la liberazione dei 350 bambini palestinesi che erano nelle loro prigioni”.
Mi propongono di firmare un foglio dove c'era dichiarato “io dichiaro di essere in territorio israeliano in modo illegale, accetto di rientrare in Italia entro 72 ore e di non tornare mai più in israele”. Mi rifiuto di firmare e loro mi rispondono “ok, allora vai in prigione”.
Mi fanno le foto segnaletiche, poi mi dicono che devono prendermi le impronte..mi rifiuto di dargli la mano che loro si prendono con la forza. Poi uno di loro mi prende con una mano al collo e l'altra per i capelli tirandomi la testa un po' indietro (non avevo capito che cosa volessero fare).. l'altro mi infila un bastoncino in bocca (che nel frattempo avevo spalancato per lo spavento) e mi dice “ti prendiamo il dna”.
Sapevano che non potevano contestarmi nemmeno il mancato rinnovo del visto, perchè avevano attaccato il taxi vicino a Nablus.... io non sono mai uscita da lì. Per un anno e 4 mesi, non sono mai passata oltre il muro.
Mi portarono quando oramai era notte, in prigione, dicendomi che eravamo nel deserto del Nakab. il tragitto, uno dei soldati ricevette una telefonata dove parlò in inglese di me... Quando chiuse la comunicazione mi disse “era il tuo Consolato, di Gerusalemme”. Erano le 11,00 del mattino quando avevano fermato il taxi. Sono arrivata alla prigione di Ben Gurion alle 23,30 (che non è nel deserto del Nakab).
Ad “attendermi” c'erano 3 soldatesse e due soldati della border police. Iniziarono di nuovo l'interrogatorio. Oramai non c'erano più speranze e così gli cagai la rabbia a parole “questo è un rapimento, questa è la Palestina, voi siete dei nazisti di merda che state compiendo un genocidio. Mi ritengo un prigioniero politico, entro in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei 350 bambini palestinesi che avete rapito”. Si incazzarono ovviamente. Mi fecero chiamare il Consolato e poi mi buttarono in cella d'isolamento.
Le celle sono tutte bianche, con le porte azzurre. Tutto, nelle prigioni israeliane, è dei colori d'israele. Hai le bandiere basse, che quando cammini per i corridoi ci sbatti la faccia sopra. Io gli sputavo, sempre.
La cella era grande, con letti a castello. I letti sono in ferro, ti spacchi tutta a dormire lì sopra. Però, quella notte, dopo un po' mi sono addormentata.... Mentre dormivo sono venuti a svegliarmi e mi hanno detto “ti sei dimenticata di firmare questo foglio..”. Era di nuovo il foglio che mi avevano proposto prima. Mezza addormentata, gli ho ripetuto che non mi ero dimenticata, ma che non lo volevo firmare.
Allora hanno lasciato la luce accesa (ci resterà per 4 giorni) ed acceso l'aria condizionata a palla. (anche quella resterà così per 4 giorni). Gelavo, giugno, a Tel Aviv.
Dalla mattina successiva iniziarono a venirmi a prendere per il mio momento d'aria. Che non posso chiamare “ora d'aria”, perchè si trattava di soli 10 minuti al mattino e 10 minuti al pomeriggio. Giusto il tempo di due sigarette. Non potevo parlare con gli altri che si trovavano in prigionia lì e che vedevo in quei 10 minuti. E poi c'erano le porte..le porte delle celle. Le usano come tortura psicologica (così come la luce sempre accesa e l'aria condizionata). Le porte azzurre di ferro, le sbattono fortissimo. E' un tuono che ti entra nel cervello e non esce più.
Su quelle porte i prigionieri picchiavano i pugni “voglio far valere i miei diritti....voglio uscire...voglio parlare..”.
Mi ero messa in testa ciò che gli avevo dichiarato, non volevo uscirne come una scema, ma a testa alta, lottando. Non ho mai bussato, mai chiesto nulla. Star lì dentro era da impazzire, in isolamento, senza nemmeno il tempo scandito dai pasti perchè ero in sciopero della fame.
Ho pensato.... “non devo pensare a cosa mi manca, ma a quello che ho per sopravvivere. Che cos'ho? Ho la mia testa, il mio corpo, questo spazio. Cosa posso fare?”. Facevo flessioni, addominali, cantavo, camminavo avanti e indietro nella cella. Tutto il giorno.
A quarto giorno mi hanno comunicato che qualcuno sarebbe venuto a portare la mia valigia e a quel punto me ne sarei andata... Boh! Dapprima mi sono chiesta chi cazzo sarebbe entrato lì dentro a portarmi una valigia e poi...per andare dove?
Quel giorno, verso le 2 del pomeriggio sono venuti a prendermi...e mi hanno portato nel cortile (quello dei 10 minuti d'aria). Mi hanno detto “aspetta qui”. E sono andati ad aprire la porta della prigione..io, che tremavo perchè congelata, con gli occhi sbarrati..mi aspettavo qualcuno del Consolato o uno sbirro.... E invece, quando l'ho vista entrare....Era G....aveva avuto il coraggio di venire da sola a Tel Aviv, in prigione da me, a portarmi una cazzo di valigia con il rischio di essere presa anche lei. Si è fermata a pochi centimetri davanti a me..perchè non sapeva se poteva mostrare che mi conosceva e non sapeva che storia avevo raccontato. E' stato qualche attimo, dove le tremavano le palpebre degli occhi, con la pelle tirata di quando trattieni tutto. E poi l'ho abbracciata. Non mi è scesa nemmeno una lacrima perchè non potevo piangere davanti ai boia; ma piango ancora adesso, ogni volta che penso a quel momento.
La prima domanda che le feci era per sincerarmi che il palestinese avesse avvisato che gli shabak avevano la mia simcard...ma lei mi rispose che il tizio non aveva detto nulla. Merda.
I soldati ci stavano addosso, non potevamo nemmeno sentire i nostri respiri in tranquillità e la visita durò pochi minuti.
Mi riportarono in cella, per venirmi a prendere la mattina dopo. Mi trasferivano nella prigione di Givon.
Arrivai a Givon con la mia cazzo di magliettina con la Palestin disegnata sopra...ero convinta di andare in mezzo ai palestinesi. Appena entrata capii dov'ero...
C'erano dei prigionieri con le tute arancioni, legati con catene alle caviglie, l'uno all'altro. Stavano lavorando delle aiuole. Ma non erano palestinesi, anzi, quando videro la maglietta avevano desiderio di farmi fuori (dai loro occhi).
E lì, alzarono il tiro con la tortura psicologica... mi misero in una specie di gabbia, un container. Tutto chiuso, tranne un buco di 10 cm per 10 cm sulla porta che però dava al loro corridoio.
La gabbia era di 2 mt per uno ed il soffitto potevo toccarlo con le mani. Era, ovviamente, una situazione claustrofobica. Mi lasciarono lì per ore... Mentre ero lì dentro, dall'altra parte di una delle parete della gabbia, sembrava stessero torturando qualcuno su una sedia con le rotelle (tipo quelle da ufficio) con un getto d'acqua.. La persona rantolava e chiedeva aiuto come se stesse affogando. Poi, l'acqua iniziò ad entrare anche nel mio container. Non so se fu una messa in scena per spaventarmi, ma quello che ho percepito è ciò che ho scritto.
Vennero a prendermi e mi portarono all'ennesimo interrogatorio dove mi comportai come nei precedenti. Mi dissero “tu vuoi continuare con lo sciopero della fame? Sei un problema di sicurezza. Quindi, se vuoi continuare, quella gabbia sarà la tua cella per il resto dei tuoi giorni. Scegli tu”.
Sapevo che quella gabbia era un metodo di tortura che ti fa perdere la lucidità dopo circa due giorni. Non potevo permettermelo, volevo durare il più possibile per permettere alla Farnesina di usarmi come ago della bilancia per la liberazione dei bambini palestinesi. Così interruppi lo sciopero della fame e uscìì al tempo stesso dall'isolamento.
Mi misero nel braccio femminile dei prigionieri con problemi di presenza illegale (o fatti simili). Ero in cella con due donne africane, una delle due era cattivissima. Iniziò da subito a rompermi i coglioni, ma avevo voglia zero di problemi con i prigionieri (come me).
Il giorno successivo andava già meglio con loro due. La “cattivissima” si chiamava Acuba Filastin. Tutte e due avevano fatto richiesta di asilo politico in israele e dovevano “attendere” in prigione per 5 anni. Erano lì da due anni e 6 mesi in quel momento; con i figli fuori che le aspettavano. Vivevano quella cella come “tutto il loro mondo” e la difendevano da qualsiasi intruso (come me). Non uscivano dalla cella nemmeno quando c'era la porta aperta e non parlavano con le altre prigioniere (e facevano bene, dopo capìì il perchè).
C'era una cinese, che aveva lavorato per gli israeliani per 8 anni, ma non l'avevano pagata solo per un 10% del suo lavoro..quando era arrivato il momento di avere tutti i soldi e tornare in Cina, cos'hanno fatto? Hanno chiamato la polizia ed hanno detto che lei era lì senza visto. Così dopo 8 anni di lavoro fu deportata, senza soldi e con quei pochi soldi che aveva preso ci dovette pagare l'avvocato.
C'erano un gruppo di filippine, sempre attaccate ai telefoni... Una di loro mi chiese se volevo parlare con il Consolato di Gerusalemme...mi disse “sai, ho un amico che lavora lì”... Eh, posso immaginare....
Mi offrì anche il caffè, mentre mi faceva le domande su chi ero e cosa facevo in Palestina...
Era la “manager” del gruppo delle Filippine. In prigione ci sono le “manager” che sono quelle che “trattano” con i carcerieri. La mia manager era Acuba Filastin, ma non me l'ha mai detto. La porto nel cuore quella Donna.
Ci svegliavano con le botte sulle porte alle 7,30. Alle 8,00 dovevamo essere tutte in piedi a lavare la cella con l'ammoniaca.... e tirare secchiellate d'acqua. Immaginate, appena sveglie, senza colazione, a tirare acqua ed ammoniaca....
Avevamo due lavandini nella cella: uno per lavare la frutta e il piatto dove si mangiava, e l'altro era un secchio in bagno per lavarti le mani ogni volta che andavi in bagno. Dovevamo star molto accorte su queste robe qui, perchè gira di tutto ed il contagio è facile.
Nel cortile chiuso anche nel soffitto da reti, c'era una casetta di plastica per far giocare i bambini. Ogni tanto ne entravano...in prigionia.... Poi, c'era il negozietto israeliano dove qualsiasi cosa costava come un rene (sigarette comprese) e puoi avere in cella SOLO le cose che vengono da quel negozietto.
Quando mi misero in cella con le donne, mi ridiedero anche il mio telefono... con la simcard... Lo facevano funzionare loro, gli shabak. Nonostante fosse ovvio, i palestinesi vollero chiamarmi ugualmente per dirmi “ciao” almeno al telefono. Sapevo che fuori erano impazziti tutti, che era partita la caccia alle streghe.
Il giorno successivo mi portarono in una stanza c'erano due soldatesse e due uomini con la kippa. Uno era un traduttore dall'italiano all'ebraico. Mi chiesero “sai dove ti trovi?” e io... “si, in Palestina”. E poi.. “sei pronta a rientrare in Italia?”, risposi “no, io voglio tornare in Palestina e voglio la liberazione dei 350 bambini palestinesi dalle vostre prigioni”. Poi chiesi cosa cazzo era questo dialogo.. Mi risposero che l'uomo era un Giudice militare e che siccome rifiutavo di rientrare in Italia volontariamente dovevo trovarmi un avvocato, perchè io con loro non potevo parlare.
Il giorno successivo arrivò a farmi visita il Console italiano a Tel Aviv che si scusò di non essere venuto prima, ma era all'estero. Li interrogò davanti a me per capire di cosa era accusata. Gli risposero “no, nessun, reato”. Il Console, allora seguì “ok, allora perchè la state tenendo in prigione?”. Gli risposero che era perchè mi rifiutavo di firmare il loro foglio. Il Console gli fece presente che non potevano farlo perchè io ero cittadina italiana e che dovevano parlarne. Il soldati gli risposero “è in detenzione amministrativa e parla con lei, Nicolas, non con noi, ti salutiamo.”.
Passarono altri due giorni. La Farnesina puntava a farmi rientrare in Italia e non c'era in corso nessuna trattativa per la liberazione dei bambini palestinesi. Al telefono dalla cella continuavo a ripetere alle persone in Italia di non chiedere la mia liberazione. (poi arrivo in Italia e trovo i manifesti “free Sam”..Vabbè).
L'ultimo giorno era già iniziato male: avevano portato dentro una donna dell'Est che si svenne per terra. Erano anni che era lì a Tel Aviv. Gli sono entrati in casa e dicevano che non era in regola con il visto. Il figlio, per scappare, era saltato giù dal terzo piano e lei non sapeva se era vivo o no. Contemporaneamente avevano portato dentro un'altra filippina che però diceva di essere una colona israeliana e imbastì il discorso con “questa terra è nostra, è scritto nella Bibbia”.... Mi sa che il mio sguardo non passò inosservato alla manager filippina, né alle guardie.
Dopo pranzo arrivò l'sms del Console: “stanno organizzando il tuo rientro su Fiumicino per domani mattina”. Nello stesso momento, le guardie, me lo dicevano a voce. Gli dissi da subito che avrei fatto resistenza.
Pochi minuti dopo il mio telefono smise di funzionare. Quella sera le mie compagne di cella cantarono e ballarono per me; una roba inventata al momento che diceva “tu, domani volerai..”. Regalai ad Acuba due spazzolini per i denti (oro in prigione). Lei mi rispose “ti porterò nel mio cuore, Dio ti benedica” e.. “cerca di non farti male quando vengono a prenderti”.
Il mattino successivo vennero all'alba, quando si inizia a lavare la cella. Erano tutte soldatesse. Non potevo nemmeno puntare i piedi per terra perchè si scivolava, era già pieno di acqua ed ammoniaca.
Mi limitai ad urlare frasi per le prigioniere e a sputare a random.
Quando mi portarono nella parte d'ingresso, mi rimisero nella gabbia, assieme ad altre due donne. Ma le due donne, soprattutto una, non riuscivano a star lì dentro. Lasciarono la porta aperta di pochi cm.
Ad una ad una ci fecero andare a ritirare i nostri “effetti” lasciati quando eravamo entrate. Nelle buste sigillate c'era tutto, tranne una cosa: era sparito il porta-accendino che mi aveva regalato Jihad, fatto a mano da lui quand'era in prigione. L'ennesima tortura mentale.
Fecero salire tutti/e sul bus, ma io mi sedetti per terra e dissi “non posso, non posso accettare, non posso smettere di lottare”.
Con molta tranquillità mi dissero “ok, ci pensiamo noi”. Arrivarono in 15 con le pistole elettriche, io ero seduta per terra, loro tutti attorno in piedi.
Non aveva più senso, mi avrebbero caricata comunque sul bus per l'aeroporto. Salii sul bus, ma già da lì ripartì lo stesso trattamento iniziale: non potevo parlare con gli altri, né sedermi vicino agli altri, né usare il telefono.
Ci riportarono di nuovo alla prigione di Ben Gurion, ma un soldato mi trattenne con la scusa di poter fumare. Faceva “il buono” per farmi parlare “cos'hai visto? Dove hai vissuto?”. Gli chiesi come mai non c'era né una sinagoga, né una moschea, né una chiesa.. Mi rispose “non siamo religiosi”. A posto, alla faccia della “terra data da Dio”.Mi riportarono da quelli dell'interrogatorio dove mi comunicarono che venivo deportata e che pertanto per 10 anni non potevo rientrare in israele (PALESTINA).
Restai altre ore in cella, poi mi dissero che era il momento. Mi chiusero nel retro di una jeep completamente chiusa e NON aprirono l'aria per respirare. C'erano 40 gradi. Non volevo bussargli per chiedergli l'aria, non avevo mai bussato in tutti questi giorni, non gli avevo mai chiesto nulla.
Quando arrivammo davanti all'aereo (non sono passata dall'aeroporto), pensai “ce l'ho fatta, non gli ho chiesto nulla nemmeno questa volta”. Ma, stazionarono con la jeep...non mi facevano scendere e stavo per collassare... Così ho dovuto bussargli e chiedergli l'aria. Mi risposero “ah, scusa, c'eravamo dimenticati”.
Mi portarono sull'aereo della El Al, tutti israeliani. Alcuni passeggeri protestarono per la mia presenza e perchè avevano fatto spostare 3 persone dai loro posti.... 3? Ok, non sono sola...
Vedevo la Palestina dall'aereo, per l'ultima volta e non potevo nemmeno piangere.
Sono stata deportata il 18 giugno 2015.
Arrivata a Fiumicino mi trattennero sull'aereo fino a quando non si svuotò di tutti i passeggeri. Sull'aereo salì la polizia italiana che prese il mio passaporto e mi disse “bentornata”. Bentornata un cazzo.
Dovevano chiudere il rapporto della Farnesina, quindi mi chiesero cos'era accaduto. Poi passarono altre ore perchè la mia valigia era casualmente sparita. La riportò un poliziotto.
Fuori c'erano i miei amici ad aspettarmi e ad abbracciarmi. Non c'era alcuna rappresentanza dallo Stato italiano e nessun giornalista. Anzi no, lo “Stato” c'era....era pieno di agenti della Digos.
Restammo a Roma quella notte a dormire. La polizia fece vedetta tutta la notte girando attorno all'hotel. Dissero che temevano attentati degli “estremisti”. Vabbè....
Due giorni dopo, mi ricollegai a facebook e scoprii che quella foto che era stata la motivazione della chiusura del mio account, era ancora lì.. e il mio account era tornato a funzionare. Ho semplicemente capito che i servizi avevano detto “basta” alla mia presenza in Palestina.
Questo, almeno, era quello che avevo capito allora.
Ora, trovo significante che a sapere che quel giorno andavo a Kuffr Qaddum c'erano le tre entità che ho citato prima: l'attivista italiano che si è defilato poco prima, l'autorità palestinese grazie al palestinese che c'era sul taxi con me, e israele tramite il mio telefono sotto controllo.
Cerchio chiuso.
Israele se ne può permettere centinaia come me, là. Chi non poteva più sostenere la mia presenza là erano gli altri due mostri.
Mi rimangono le fobie delle porte, della gente che se mi tocca o mi sfiora do i numeri, la claustrofobia, e altro ancora. Mi rimane la capacità di vedere l'orrore. Del tipo.. se ci sono 100 pecore, tutte uguali e solo una di loro soffre; io vedo quella che soffre e non vedo più le altre 99. Anzi, le vedo e mi incazzo. Ho reazioni orribili. Faccio sentire gli altri delle nullità. Tendo a tagliare i rapporti con tutti perchè ho solo merda da dargli. Ho completamente perso la voglia di andare in luoghi dove “c'è gente”.
Quello che ho costruito, lo vedo solo ora e mi sono resa conto che non è poco. E qui, ci soffro ancora di più. Eh sì, perchè di fatto mi hanno martirizzato in vita. Tutti i giorni vado a pulire i cessi per restare integra in una società che rifiuto e per poter mantenere la mia etica intatta. Tutti i giorni sono costretta a confrontarmi con le 99 pecore che sono il NULLA.

Ho dipinto la mia stanza di bianco ed azzurro, per onestà. Perchè dalla prigionia non ci sono mai uscita e ne sono cosciente. Ero in prigione quand'ero in Palestina così come quando lo ero a Givon, così come lo sono qui. Echna cullna asra.....siamo tutti prigionieri.
E allora riparto da lì, come nella cella: “non devo pensare a ciò che mi manca, ma a quello che ho. Ho il mio corpo, la mia mente, questo spazio. Cosa posso fare...”. Continuare a studiarli sicuramente, costruire una strategia e fare ciò che desidero. Ieri sera ero al concerto di Ginevra de Marco, cantava “Todo cambia”....bellissimo. Però avevo l'amaro in bocca....ne parlavo con un amico algerino e gli dicevo “pensa se salissi sul palco, dopo questa performance a dire a tutta questa gente che è bellissima, ma peccato che Mercedes Sosa abbia vissuto in un kibbutz occupando la Palestina...”. Lui mi ha risposto che non capirebbero mai perchè non hanno vissuto là, non vengono da là, non sanno; non capirebbero, mi griderebbero “antisemita, fascista, pazza”. Ecco, appunto.

I complici che hanno provocato il mio rapimento sono pronta a perdonarli, perchè lotto per la Libertà di tutti, anche per la loro che sono schiavi dei mostri.
Concludo dicendovi che è solo il racconto del mio rapimento, non è nulla, veramente nulla a confronto di ciò che fanno ai palestinesi.


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